IV

LA CRITICA DESANCTISIANA

Il De Sanctis giunse all’esame critico sulla poesia ariostesca nella Storia della letteratura italiana (XIII, L’Orlando Furioso) dopo lunghe meditazioni sul poema, di cui abbiamo notevoli prove nello schema di alcune lezioni tenute nella scuola napoletana prima del ’48 (forse nel ’42-43[1] e nel corso di lezioni sulla poesia cavalleresca tenuto a Zurigo nel 1858[2]. Già nel primo schema è evidente il legame del grande critico con l’interpretazione hegeliana[3] nel significato attribuito al «riso» dell’Ariosto, che «distrusse il mondo cavalleresco»[4] senza però metterlo «direttamente in beffa», mentre, in mezzo ad alcune incertezze in una dubbia ricerca di «unità interna» e di centro nel carattere di Ruggiero, «eroe serio, ideale», in quello schema che rompe con le vecchie polemiche sulle regole e l’ordine («Il poema non è sbagliato perché non osserva le regole: ma sarebbe sbagliato, se le osservasse. La sua unità, il suo ordine è l’unità del disordine»[5]), si avverte uno sforzo significativo per recuperare e giustificare, dentro il riso e lo scherzo e l’abilità descrittiva, una serietà e una ricchezza di «affetto e di profondità». Da una parte si rileva che «poiché il poema ha un fine generale scherzoso e il serio vi entra come accessorio, è grande arte non approfondire la serietà, scorrervi sopra per accenni, per non produrre dissonanze»[6], dall’altra, con un impegno che meglio si sarà realizzato nelle analisi perdutesi, si cerca di conciliare ingegnosamente l’unione di toni leggeri e profondi nella duplice natura dei personaggi, appartenenti al mondo scaduto della cavalleria, ma che insieme «provano affetti e dolori» («Ma quando questi cavalieri escono dal mondo dei loro costumi e provano affetti e dolori, l’Ariosto si ricorda che sono uomini, e si commuove e ci commuove [...]»[7]). Nelle lezioni zurighesi, allargando la propria attenzione al mondo poetico del Furioso nella sua vita complessa (e qui si presentano le bellissime analisi di episodi che il critico utilizza nella Storia senza però poterne riprendere l’accento piú appassionato scaturito da un contatto fresco e rinnovatore), il De Sanctis insisté meno sul generico schema storico e piú sullo sviluppo del «ciclo cavalleresco», di cui l’Ariosto è presentato come il «vero e sommo rappresentante», che aveva unito la «bella forma» polizianesca e il nuovo contenuto creato dal Pulci, dal Cieco da Ferrara, dal Boiardo. E in questo sviluppo di ciclo (ben diversamente vivo, malgrado i suoi limiti sociologici, dal genere come fu poi inteso dal Rajna), che usufruiva delle indicazioni romantiche precedenti in un terreno piú direttamente letterario, il De Sanctis, tutto preso dal suo vitale schema concezione-situazione come contrapposto di astratto e concreto[8], servendosene di passaggio dal Boiardo all’Ariosto, fa di quest’ultimo il poeta delle situazioni concrete, il poeta che sa calare ogni carattere volta per volta in una particolare, individuata situazione. Vigorosa indicazione della piena concretezza ariostesca che corrispondeva (in questo saggio suggestivo e ricco di spunti che si offrono al di là del capitolo della Storia all’attenzione della critica piú moderna) alla costatazione, piú precisa che nello schema napoletano, di un elemento profondamente umano e sentimentale accanto a quello meraviglioso e cavalleresco[9], all’accertamento di un sostrato di affetti che nel grande episodio di Zerbino (su cui l’indicazione era stata replicata piú volte dalle osservazioni sulle «incidenze affettuose» del Nisiely e con piú continuità e modernità dall’Andrés e dal Sismondi) lo induceva alla famosa esclamazione: «Sentite quanto cuore aveva l’Ariosto!»[10]. Ecco come lo schema mutuato da Hegel, sulla sollecitazione di precedenti critici, ma ancor piú nello slancio della sua lettura piú viva e del suo senso istintivo della concretezza umana e poetica (radice insieme del suo romanticismo e del suo realismo), si arricchisce, oltre che della notata attenzione a un piano piú letterario, di un rilievo alla vita degli affetti nel Furioso che il capitolo della Storia sentí meno vivacemente, che sarà ripreso con diverse accentuazioni dal Croce e dal Momigliano.

Nelle lezioni zurighesi insomma si approfondivano alcune osservazioni già fatte in quelle napoletane[11] e, pur nel rispetto della formula hegeliana dell’ironia e della dissoluzione della cavalleria, si presentavano, in una forma piú genuinamente desanctisiana, motivi che non passarono interamente nel capitolo della Storia rimanendo come un’offerta importante e sacrificata di fronte alle formulazioni ed al taglio generale del nuovo saggio. Non diremo con ciò che le pagine zurighesi sian da considerare complessivamente piú feconde e promettenti del nuovo saggio, tanto piú impegnativo ed elaborato, ma certo, nella loro maggiore semplicità ed unilateralità, esse rappresentano un elemento essenziale al generale contributo desanctisiano e la scarsa presenza del loro motivo fondamentale nel capitolo della Storia appare come una causa delle difficoltà che in quello si possono avvertire, nella dubbia soluzione dell’arte per l’arte e dell’oggettività impersonale del Furioso.

Il capitolo della Storia, che rivela una maggiore conoscenza e utilizzazione della «letteratura» ariostesca ottocentesca (specialmente degli sviluppi hegeliani nel Gioberti, nel Quinet ecc.), mostra subito l’esigenza rinnovata di un saldo collegamento storico (meglio che nel saggio precedente) e di un piú intenso rilievo alla grandezza artistica dell’Ariosto, nel tentativo di unificare il significato storico generale e quello piú particolare della storia italiana su di una interpretazione del Cinquecento, maturatasi in lui a contatto con la storiografia romantica, in cui risolvere il valore dell’Ariosto quale rappresentante dei motivi piú profondi del suo secolo in accordo intimo ed unitario con le qualità della sua poesia. La valutazione protestantica del Rinascimento come epoca della crisi italiana, in cui, nel progressivo affievolirsi degli interessi morali, l’aspirazione alla bella forma diventa esclusiva e coincide con un’ironia superiore che corrode e svaluta ogni contenuto morale ed ogni valore non estetico, permetteva al De Sanctis di fare del Furioso il capolavoro del secolo in un’accezione piú completa di quanto fosse avvenuto negli storici che del poema avevano parlato solo in funzione di una tesi extraestetica. Nella vittoria assoluta dell’interesse estetico, in cui l’ironica dissoluzione del mondo cavalleresco medievale è insieme affermazione di questa posizione di civiltà matura fino alla decadenza (eppure ricca di un amore dell’individuale e della libertà che il De Sanctis non poteva non apprezzare come base della civiltà moderna pure romanticamente riempita di un nuovo senso del valore ideale e di un nuovo senso della realtà), nel panestetismo corrispondente, in tale valutazione, al panpoliticismo machiavellico, il Furioso è il capolavoro del secolo proprio nel rifletterne ed esaltarne con coerenti mezzi artistici il sostanziale amore per la pura forma, il disprezzo per ogni contenuto particolare. Di fronte a Dante («piú poeta che artista»), nell’Ariosto «vive ciò che è ancora vivo in Italia: l’artista»[12]. Cosí, nello schema pericoloso della contrapposizione fra poeta ed artista, riflesso di un dissidio non sanato fra contenuto e forma, là dove il romantico non riesce ad accertare pienezza e profondità spirituale in accordo con civiltà spiritualmente e moralmente positive, il De Sanctis poteva accentuare la sua ammirazione per la perfezione, per la «finitezza» del poema non come qualità staccate e ingiustificate, ma anzi come il fiore stesso del tempo da cui esso nasceva, nella fusione dei toni estremi (Raffaello «troppo ideale», Berni «troppo grossolano»), nello stesso equilibrio a cui il Rinascimento tendeva come a meta suprema. Sicché (nella piega inevitabile del suo concetto di Rinascimento e della sua distinzione fra artista e poeta), quando il De Sanctis sente il bisogno di dichiarare un contenuto a quella forma perfetta, senza pieghe, senza squilibrio, senza ansie sentimentali e senza tormenti spirituali, non può che tentare la formula estrema ed assurda dell’arte per l’arte[13], facendo del Furioso un caso-limite di eccezionale vita artistica, in una civiltà eccezionalmente priva di interessi spirituali, eppur capace di tanta altezza estetica.

È evidente allora che, mentre quella formula adombra, come ben vide il Croce, la singolare purezza poetica del Furioso e la difficoltà di trovare validi quei contenuti particolari che il De Sanctis giustamente sentí insufficienti e su cui inutilmente si affannarono ancora gli epigoni del grande periodo romantico, essa è in se stessa erronea e finisce per svalutare il ricco mondo sentimentale che nel Furioso, senza diventare dramma, vive in una disposizione lirico-narrativa, nella vasta e complessa armonia di un ritmo vitale diventato, nella sua massima purezza e nel suo calore mai spento di concreta esperienza, il ritmo stesso della fantasia.

Il De Sanctis aveva creato un ritratto coerente sacrificando elementi che aveva invece accentuato[14] nel saggio sopra la poesia cavalleresca e che pure sembrano renderlo in qualche modo insoddisfatto della sua conclusione cosí agevole e affascinante: tanto che, al di là del predominio dell’artista sul poeta in coerenza con il secolo della pura forma, al di là dell’arte che ha per suo scopo e contenuto l’arte, al di là dell’ironia come testimonianza dell’intelligenza superiore del secolo (e alleggerita in realtà come «riso» e «risolino» in maggior vicinanza al tono ariostesco[15]), il grande critico svolse ancora un motivo critico per cogliere piú in profondo l’essenza di quella poesia cosí grande e cosí difficile nella sua apparente semplicità. È il motivo dell’obbiettività e impersonalità della poesia ariostesca, con cui il critico tentava un’ulteriore conciliazione di forma e contenuto, riscoprendo in quella forma perfetta e cristallina non dei sentimenti particolari, un contenuto sentimentale preciso e descrivibile, ma pure un generale sentimento omogeneo allo scopo della pura arte, una specie di adesione del poeta alle cose che rappresenta, una volontà di immedesimazione con esse e di suprema obbiettività: «Il creatore è scomparso nella creatura. L’obbiettività è perfetta». «È tutto obliato e calato nelle cose e non ha un guardare suo proprio e personale»[16]. Motivo in cui poteva agire anche la spinta ad un piú chiaro realismo che veniva maturando nel De Sanctis, e motivo a cui il Croce obietterà, unificandolo sotto quello dell’arte per l’arte:

La teoria dell’arte per l’arte, interpretata come teoria del mero diletto della immaginazione o della indifferente riproduzione oggettiva della cosa, deve essere sempre fermamente respinta, perché contrasta e contraddice alla natura dell’arte e dello spirito in generale. Tutt’al piú, questi due paradigmi, d’arte della mera immaginazione e d’arte dell’estrinseca oggettività, potrebbe valere a designare due deficienze e brutture artistiche, l’arte futile e l’arte materiale[17].

Cosicché la conclusione del saggio, ricca essa stessa di approssimazioni critiche in sé e per sé importanti e di una reverenza profonda e commovente per il valore storico ed artistico dell’Ariosto, riflette quello sforzo di sintesi e insieme, pure in una linea salda e vigorosa, l’intima difficoltà di definire (specie nella posizione desanctisiana della distinzione artista-poeta) una poesia cosí personale e cosí limpida, cosí perfetta e priva di problemi spirituali ed intellettuali vistosi, nell’urgere insoddisfatto di quella viva realtà sentimentale che nelle lezioni zurighesi si era offerta al critico con tanta evidenza e che qui rimane sacrificata alla formula generale[18].

Ma se la conclusione rivela ancora i limiti della critica desanctisiana, che offriva intuizioni profonde e tali da non poter essere superate se non cercando nella loro imperfezione una loro parziale implicita verità (la strada seguita dal Croce, che disponeva di una interpretazione meno unilaterale del Rinascimento e di una visione estetica piú unitaria circa il rapporto desanctisiano contenuto-forma, poeta-artista), essa ci indica anche non solo lo sforzo alto ed esemplare del critico per creare un quadro pieno e sintetico del poeta[19], del suo significato storico, della sua tradizione letteraria (anche se piú accennata che precisata), ma proprio la sua felice attenzione a motivi, a toni e a risultati della poesia ariostesca che si ritrova, dentro le linee della interpretazione generale, in tutto il bellissimo saggio[20]. Cosí, accanto a riprese, trasformate originalmente, di motivi giobertiani, come quella di una unità nella libertà della fantasia, errante nel caratteristico mondo avventuroso cavalleresco[21], e all’autorevole anche se rapido rilievo dato al motivo essenziale del naturale meraviglioso[22], tutta la ricostruzione del mondo del Furioso offre un’alta impressione critica generale della poesia ariostesca nel suo tono aereo e sostanzioso di cui il critico geniale sa adeguare, in rapide analisi, senza indugio, e pure precise e sensibili, nel suo linguaggio questa volta eccezionalmente vivace ed agile, la varietà di sfumature, il trascolorare incessante, la finitezza perfetta e l’agevole ritmo.

Tutta la critica romantica, anche nella sua ripresa delle piú vivaci intuizioni settecentesche, pare presente e sintetizzata nel saggio desanctisiano, nel quale poi le nuove letture della critica idealistica del Novecento trovarono l’autorevole appoggio di osservazioni ed analisi, stimolanti anche al di là delle formule dominanti nel saggio stesso e da cui pure criticamente prese l’avvio la nuova valutazione crociana.


1 Si trova in Teoria e storia della letteratura, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1926, vol. I, pp. 222-228. «Andarono invece perdute le tante analisi di quel poema che il De Sanctis già fin d’allora era venuto facendo» (nota del Croce a p. 221).

2 Ora in Opere, a cura di N. Cortese, Napoli, Morano, 1941, vol. XIII.

3 E Hegel è direttamente citato a p. 223.

4 Ivi, vol. XIII, p. 227.

5 Ivi, vol. XIII, p. 224.

6 Ivi, vol. XIII, p. 227.

7 Ivi, vol. XIII, p. 225.

8 Si veda in proposito il mio saggio L’amore del concreto e la «situazione» nella prima critica desanctisiana, «La Nuova Italia», 1942; la nota di G.N. Giordano Orsini, «Civiltà moderna», 1942, e G. Contini, nella Introduzione ai Saggi critici del De Sanctis, Torino, UTET, 1949, p. 16.

9 «Nell’Ariosto insieme all’epico e al cavalleresco, ossia a passato dissolto dall’ironia, c’è il presentimento dello spirito moderno; dopo la negazione, si ha l’affermazione. Parlo dell’elemento umano: Cloridano, Medoro, Isabella e Zerbino, Brandimarte e Fiordiligi [...]» (Saggio sulla poesia cavalleresca, in Opere cit., vol. XIII, p. 209).

10 Ivi, vol. XIII, p. 223.

11 Anche l’accentuazione dell’elemento positivo umano si svolge da una frase di collegamento con il tema del cavalleresco che è ripresa dalla notata osservazione delle lezioni napoletane: «Quando Ariosto rappresenta una società epica o cavalleresca, ride: ma, rappresentando affetti umani, non ride piú».

12 Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1912, vol. II, p. 6.

13 Vi si ritrovavano stimoli tradizionali (il puro dipingere di cui parlava anche il Foscolo), suggestioni del giudizio del Quinet, della teoria del «giuoco» del Vischer, e l’eco di piú recenti atteggiamenti parnassiani già banditi dal Gautier.

14 Prova anche questa di come nel suo sforzo di conclusione armonica il De Sanctis cercasse anche di non perdere le intuizioni della sua viva sensibilità estetica e se ne servisse a correggere, dove possibile, le linee piú angolose della sintesi. L’ironia era stata la molla attiva della critica romantica, ma già si avverte la fine di tale suo compito nell’utilizzazione conclusiva piú fine e complessa fattane dal De Sanctis.

15 E accentuando eccessivamente il tono della satira e dell’irrisione. «Al di sotto (della bella esteriorità) ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio» (un Boccaccio naturalmente in questo caso visto esageratamente vicino a Momo): Storia della letteratura italiana, ed. cit., vol. II, p. 33.

16 Storia della letteratura italiana, ed. cit., vol. II, pp. 26, 34. Nella Poesia cavalleresca aveva già parlato di obbiettività: «Vi ha momenti felici nella vita, nei quali la nostra intelligenza è cosí lucida e potente che apprendiamo immediatamente l’oggetto senza che nulla di estraneo si frammetta tra esso e noi [...]. L’Ariosto ha realizzato la forma poetica nella sua eccellenza, ha raggiunto quanto potrebbe chiamarsi “utopia estetica”, la compiuta medesimezza della forma con l’idea. In Dante e Petrarca, tra esse e il loro oggetto c’è sempre la personalità loro, il tempo, le opinioni, le passioni, la scuola poetica dominante: non c’è tra il vedente e il veduto piena comunicazione. La trasparenza vera della forma consiste nell’annullamento di questa, nel suo diventare una semplice trasmissione, che non attrae l’occhio per sé: al pari di uno specchio, del quale non avvertite il vetro». «La parola “chiarezza” non sarebbe bastevole a qualificare questa forma, perché “chiarezza” esprime qualche cosa di negativo, un dovere piuttosto che un pregio, e bisogna dire invece “limpidezza”: acqua limpida è appunto quella che non lascia vedere sé, ma il fondo. Cosí l’oggetto raggiunge l’evidenza. Quando l’Ariosto per rappresentare la Discordia, che addita all’angelo Michele la Fraude, dice:

E verso una alzò il dito, e disse: È quella,

si vale d’un gesto che mostra subito l’indicante e lo indicato» (Saggio sulla poesia cavalleresca cit., pp. 149-150).

17 B. Croce, Ariosto, Bari, Laterza, 1927, pp. 14-15.

18 «Questo mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore; questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un’alta ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e nei mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e ai trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è cosí serio artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante; e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò, dal punto di vista del reale, uno scherzo, o, come dicea il cardinale Ippolito, una corbelleria. E sarebbe stata una corbelleria, se l’autore avesse voluto dargli piú serietà che non portava e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perché il poeta è il primo a riderne dietro la tela ed ha l’aria di beffarsi lui de’ suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d’immaginazione, è ciò che dicesi capriccio e umore. Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione e si oblia in quel suo mondo, e gli dà l’ultima finitezza. Di che nasce che l’umore piglia la forma contenuta dell’ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtú, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie: passioni, caratteri, mezzi e fini; superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che all’ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica: dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell’immaginazione, dove si rivela un cosí alto sentimento dell’arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E perché questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l’uno nell’altro, sono la rappresentazione artistica dell’un mondo con sopravi l’impronta dell’altro. In questa fusione piú sentita che pensata, e che fa dell’autore e della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza artistica il lavoro piú finito dell’immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano» (Storia della letteratura italiana, ed. cit., vol. II, pp. 40-41).

19 Nel capitolo della Storia della letteratura sono notevoli anche le pagine iniziali sull’uomo e sulle opere minori, sulle quali solo in questo periodo, per opera del Carducci e del De Sanctis, si fermò piú precisamente l’attenzione degli studiosi.

20 Giustamente E. Alpino, nel suo saggio L’Ariosto di De Sanctis, «Via dell’Impero», 1934, p. 9, insiste sulle osservazioni fatte nell’analisi dei particolari in cui il De Sanctis «riguadagna il terreno perduto nella considerazione complessiva del poema un po’ astratta».

21 «L’unità è dunque non questa o quella azione e non questo o quel personaggio, ma è tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo [...]. Unità d’azione ed episodi sono un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e da Orazio, e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare al mondo cavalleresco. Perché l’essenza di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell’individuo, la mancanza di serietà, di ordine, e di persistenza in un’azione unica e principale, sí che le azioni si chiamano “avventure” e i cavalieri si dicono “erranti” [...]. Il disordine qui è ordine, e la varietà è unità. Come l’unità del mondo, nella sua infinita varietà, è nel suo spirito o nelle sue leggi, cosí l’unità di questa vasta rappresentazione è nello spirito e nelle leggi del mondo cavalleresco» (Storia della letteratura italiana, ed. cit., vol. II, pp. 19-20).

22 «Si è cosí avvezzi a questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un mondo ordinario». Si può dire però che questo motivo, tanto vivo dal Foscolo al Gioberti, fu in proporzione meno sentito dal De Sanctis, come nella critica contemporanea sarà piú rilevato nella interpretazione del Momigliano e dell’Ambrosini che non in quella crociana, piú tesa ad una formula centrale e meno alla constatazione delle particolari dimensioni del mondo poetico ariostesco.